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Per la Chiesa Cattolica, è l’eremita che  strappa le anime al diavolo e i peccatori dal fuoco infernale. E’ festeggiato in tutta Italia da Nord a Sud, visse centenario nel suo eremo solitario a stretto contatto con la natura e gli animali dei quali è considerato protettore e in suo onore sono accesi propiziatori falò per augurare agli allevatori una stagione ricca di soddisfazioni.

Di S. Antonio Abate se n’è celebrata la festa anche quest’anno lo scorso 17 gennaio, ma sono ormai poche le località ossolane che ricordano l’anacoreta egiziano, chiedono protezione per le greggi e gli altri animali di cui è difensore e benedicono in suo onore il pane, una volta condiviso con le bestie allevate. L’ormai passata festa di quest’anno ci impone, però, di fare il punto sulle fattorie italiane, in particolare su quelle ossolane, e mi offre l’occasione per riprendere il contatto con i lettori di Ossola Rurale ai quali chiedo scusa se da qualche tempo non pubblicavo più “riflessioni agresti” sulla rivista on line.

La “Fattoria Italia” purtroppo sta svanendo. Lungo tutta la dorsale alpina e quella appenninica, gli allevamenti, soprattutto quelli più piccoli a gestione familiare, stanno scomparendo. I dati di settore che arrivano dagli ultimi censimenti, dicono che in Italia negli ultimi dieci anni sono scomparsi quasi due milioni di animali tra mucche, capre, pecore e maiali. Animali questi che eravamo soliti incontrare negli alpeggi durante le camminate escursionistiche compiute sulle dorsali delle valli ossolane. Si salvano, fortunatamente, gli allevamenti intensivi della pianura e quelli montani in grado di far nascere prodotti di qualità, il Bettematt per esempio, molto richiesti dal mercato.

E come spesso accade, è proprio la montagna a essere maggiormente penalizzata rispetto al trend negativo che ha investito la penisola. La montagna, cioè quel territorio marginale che tutti a parole promettono di aiutare ma che poi, ogni volta che escono dati specifici sulle produzioni alpestri e questi sono ritrovati con segno negativo, mostra evidenti i sintomi di un aiuto concreto venuto meno. E sono soprattutto le aree interne più complesse, quelle dove l’asperità del territorio e le difficoltà di operare seguendo i moderni criteri autorizzativi rendono tutto più difficile, a essere maggiormente penalizzate. Mancano le condizioni economiche, sociali e strutturali minime affinché si possa garantire la sussistenza ai nostri allevatori e la ripresa di un settore un tempo fiore all’occhiello delle vallate alpine.

La scomparsa delle fattorie familiari, che non riguarda solo ovini e bovini ma tutta una serie di altri animali allevati per passione e per necessità (asini, galline, conigli, tacchini, pavoni …) ha favorito la perdita se non addirittura fatto rischiare l’estinzione a numerose razze di animali d'allevamento un tempo presenti nelle nostre vallate. Una straordinaria biodiversità che caratterizzava il territorio ossolano.

Un dossier curato dal quotidiano La Stampa afferma che in Italia sono oltre centotrenta le razze di animali d’allevamento a rischio estinzione. E Coldiretti, l’associazione più rappresentativa del mondo agricolo nazionale, nel prendere coscienza dei dati negativi analizzati, per bocca del suo presidente ringrazia gli allevatori italiani per il paziente lavoro ancora in grado di garantire una straordinaria biodiversità agli allevamenti nazionali salvando dalla scomparsa molte di quelle specie un tempo largamente diffuse sul territorio.

Che cosa può fare l’Ossola per continuare a sorreggere se non addirittura incrementare il settore dell’allevamento? Intanto un’azione di recupero delle numerose aree non ancora inselvatichite su cui è possibile far crescere degli allevamenti atti a sostenere le richieste commerciali dei prodotti di nicchia in grado di attrarre il consumatore. Favorire poi il ritorno di quelle varietà di pecore, capre, bovini e maiali un tempo presenti sul territorio che per adattarsi alle moderne forme di allevamento e distribuzione dei prodotti non sono sopravvissute. Creare inoltre una rete di punti vendita distribuiti capillarmente sul territorio dove sia possibile recuperare i prodotti “nostrani”, provenienti cioè dalle “botteghe” dei nostri allevatori, e distribuire quelle derrate alimentari che seppur in scala ridotta ridanno ossigeno all’Ossola agricola.

Occorre infine prendere coscienza che quando un alpeggio viene abbandonato o una stalla chiude, non si perde soltanto qualche animale o il prodotto tipico che era in grado di produrre, ma si vede inselvatichire una parte di territorio e vanificare gli sforzi messi in atto per combattere lo spopolamento alpino e conservare quel sapere antico frutto dell’esperienza d’intere generazioni. Analogo discorso andrebbe fatto per le varietà vegetali; frutta, verdura, erbe selvatiche e legumi di cui si stanno perdendo i semi autoctoni. Questo però è un altro discorso e merita un successivo approfondimento …

Pier Franco Midali – 21 gennaio 2019