ALTO PIEMONTE-16-11-2020-- In generale, in sede civile,
l’art. 2087 del codice civile prescrive che l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. E’ un obbligo giuridico preciso, quindi, che il datore di lavoro garantisca condizioni tali che non mettano mai in pericolo la salute del lavoratore. In sede penale, il datore di lavoro assume la cosiddetta ‘posizione di garanzia’, cioè potrebbe rispondere di lesioni colpose o di omicidio colposo nel caso un lavoratore contragga il Covid se non dimostra di aver adottato tutte le misure previste dalla legge per la sua tutela. Come ben capite, è difficilissimo dimostrare se il lavoratore abbia contratto il Covid sul luogo di lavoro o in altro posto qualsiasi e il timore, legittimo, dei datori di lavoro, è quello di dover dimostrare (ma è una ‘prova diabolica’) che il lavoratore non ha contratto la malattia sul luogo di lavoro per evitare procedimenti penali. Come fa il datore di lavoro a dimostrare che il lavoratore non ha contratto il Covid sul posto di lavoro? In via teorica, il datore di lavoro basta che inserisca nel Documento di valutazione dei rischi previsto dal Decreto Legislativo 231/2001 l’elenco degli accorgimenti di prevenzione contenuti in leggi e regolamenti e non dovrebbe rischiare nulla. Tuttavia, la legislazione di emergenza ha complicato le cose e ha dato una responsabilità di accertamento all’Inail molto più pressante del periodo precedente l’emergenza. Tra l’altro, dovrebbe essere dimostrato senza ombra di dubbio il nesso causale tra gli accorgimenti adottati sul luogo di lavoro e la lesione e/o la morte del lavoratore. Il tema è di grandissima attualità e sicuramente la giurisprudenza, negli anni a venire, dovrà pronunciarsi spesso su questo problema adottando linee interpretative comuni e non contraddittorie.
Carlo Crapanzano